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In mostra le opere di Riccardo Francalancia

22 ottobre 2005- 20 gennaio 2006

Gli spazi del Museo di Santa Giulia che il progetto "Brescia. Lo splendore dell'arte" dedica alla riscoperta della pittura italiana della prima metà del Novecento, vedranno quest'anno alternarsi le opere di Riccardo Francalancia (dal 22 ottobre 2005 fino al 20 gennaio 2006) e di Filippo De Pisis (dal 21 gennaio al 19 marzo 2006).

Proprio dove il pubblico ha potuto assaporare lo scorso inverno le opere della "scuola di via Cavour", saranno in mostra i quadri di Riccardo Francalancia che già nel 1930, alla Seconda mostra del Sindacato Laziale Fascista di Belle Arti, furono esposti insieme a quelli di Mario Mafai e Scipione. Lo stesso Longhi, infatti, nel celebre articolo in cui per la prima volta utilizza l'espressione "scuola di via Cavour", accomuna Riccardo Francalancia ai colleghi romani definendoli irrealisti.

Trentasei le opere esposte

Trentasei sono le opere esposte a Brescia: si va dai primi dipinti del 1919 (Rami al sole), e poi lungo un intero ventennio per arrivare ad un'opera del 1939 (La Chiesa Nuova). Nel percorso espositivo particolare attenzione è stata dedicata da Fabrizio D'Amico, curatore della mostra, allo svolgersi degli anni Venti, periodo cruciale dell'intera produzione artistica.

Riccardo Francalancia

Riccardo Francalancia nasce ad Assisi nel 1886, ma ben presto si reca a Roma per iscriversi alla facoltà di Scienze politiche e coloniali, dove si laurea e trova sicuro impiego presso il Credito Italiano. È però la frequentazione del Caffè Aragno, dove incontra i più importanti intellettuali e artisti della città, a lasciar scaturire la vocazione artistica. Già dal 1922, o dagli inizi del '23, l'assisiate abbandona il suo lavoro in banca per dedicarsi interamente all'arte. Il clima del Caffè Aragno, ed in particolare il sodalizio con Mario Broglio, lo portano ad esporre per la prima volta, ancora nel 1921, accanto agli artisti dei "Valori Plastici" (Das Jungen Italien, mostra itinerante a Berlino, Hannover, Dresda e forse anche Lipsia). Nonostante il legame con gli artisti dei "Valori Plastici", Francalancia mantiene comunque una posizione di tangenza senza mai legarsi, nel corso di tutta la sua vita, ad alcun movimento.

Vero autodidatta, Francalancia dipinge senza la mediazione di precetti accademici. Da qui nasce il luogo comune, ricorrente nella critica e già presente in Broglio, di un artista "ingenuo", sincero e pio, accomunato al Doganiere, Henri Rousseau.

Come dimostra chiaramente Fabrizio D'Amico nel saggio "Riccardo Francalancia, il misterioso assisiate", pubblicato nel catalogo della mostra, si tratta in realtà di un primitivismo "che si riverbera su tutto il primo decennio della pittura di Francalancia", arricchendosi però con altre suggestioni che si affiancano via via all'iniziale vocazione. Se infatti per opere quali Bosco ceduo (1922) e per altre primissime prove si può parlare di vicinanza al Doganiere, questa "ingenuità" andrà poi stemperandosi già a partire dal 1923, lasciando spazio a nuove suggestioni, tra cui spicca soprattutto quella dei Primitivi italiani del Trecento, ed in particolare di Giotto che Francalancia aveva sicuramente potuto vedere ad Assisi.

Il 1923 è proprio anno cruciale nella produzione artistica di Riccardo Francalancia, anno di svolta che porta alla stagione sua più alta. Nei Monti di Palestrina (1923) è infatti già chiara la sintesi a cui lo sguardo dell'artista sottopone la realtà che lo circonda. Come scrive Paola Bonani nella scheda relativa all'opera

pubblicata nel catalogo edito da Linea d'ombra Libri, "Le forme delle montagne, dell'albero e della chiesa (...) sono divenute più essenziali, e come solidificate, rispetto ai paesaggi degli anni precedenti. Sulla terra la gamma dei colori è ristretta a poche variazioni tra il verde e il marrone, su cui si stendono il bianco e l'azzurro del cielo". Guido Giuffré, riferendosi alla stessa opera la considera "uno degli esiti più acculturati (e insieme più acuti)[...]. Il Francalancia ingenuo e semplice (che non significa sprovveduto e semplicistico) trova qui l'inattesa impennata di una forma scabra ed essenziale, spigolosa e vigorosa, tanto esplicitamente primitiveggiante (...) sfiorata ancora dall'estrema rarefazione metafisica".

Accanto a Giotto e ai primitivi italiani, nell'opera di Francalancia emergono infatti anche chiare eco di derivazione metafisica e dechirichiana, evidenti nell'atmosfera di sospensione e attesa propri di opere quali La stanza dei giochi del 1928.

È come se le suggestioni e gli stimoli degli anni della formazione visiva stessero prendendo forma per concretizzarsi in nuovi modelli. Gli incontri con Rosai, Dottori e de Pisis, che la vicinanza con Anton Giulio Bragaglia e la sua fervida galleria gli consentirono, proprio dal '19 al '22, lasciarono indubbiamente una traccia sensibile nel suo fare artistico.

Una duplice soluzione spaziale accompagna, alternativamente, la carriera artistica di Riccardo Francalancia, che articola i paesaggi attorno a pochi elementi principali, scarni ed essenziali (è questo il caso di Monti di Palestrina, 1923, Monti di Colcaprile, 1927 e Sella di Colle,1928), oppure si spinge verso un proliferare di dettagli articolati in una spazialità allargata (come ad esempio Acrocoro del pappagallo, 1926, oppure Paese sui calanchi, 1927). A partire dagli anni Trenta, però, la prima maniera, più essenziale e plastica, riflesso di una visione sintetica, sarà quasi completamente abbandonata a favore di una rappresentazione in profondità, a perdita d'occhio.

Il vertice qualitativo dell'opera di Francalancia si può ravvisare negli anni tra il 1923 e il 1928, o al massimo agli inizi del Trenta. Proprio in questo frangente Francalancia spoglia la natura di ogni racconto, caricandola di una forte plasticità fino a renderla, con la parole di Fabrizio D'Amico, "massa incombente, linea aspra ed essenziale, colore povero e unito, ferrigno".

Francalancia si allontana dalle iniziali "fantasticherie", approdando ad un diverso primitivismo arricchito di suggestioni storiche. Nell'Acrocoro del pappagallo (1926) ed anche in Sella di colle (1928), la natura, su cui Francalancia pone uno sguardo sereno, conquista una sua normalità.

Nel 1928 alle Stanze del Libro a Roma si tiene la sua prima personale con trentatrè opere tra paesaggi e nature morte. La mostra ha un enorme successo e i quadri di Riccardo Francalancia sono stimati soprattutto, anche secondo la presentazione della mostra che fa Angelo Signorelli, "per la semplicità, la freschezza e l'immediatezza", che "valgono a placare (...) ogni incomposto moto dell'anima". Delle opere dell'assisiate la critica contemporanea sottolinea ed apprezza l'idea rasserenante della natura, il silenzio e la quiete, avvolti da un'intensa vibrazione lirica e poetica.

Contemporaneamente, un'altra marginale frangia della critica, tra cui ad esempio Corrado Pavolini, scorge invece nelle sue opere una forza diversa, una capacità di riandare all'essenza profonda della natura seguendo schemi astratti, fantastici e fiabeschi. Come un "avviso di irrequietezza, un seme d'incostanza" che dà vita al "realismo magico" proprio accanto all'ormai noto e apprezzato "realismo acquietato".

Nota biografica

Riccardo Francalancia (Assisi 1886 - Roma 1965), dopo la laurea in scienze politiche, nel 1919 decide di dedicarsi alla pittura in seguito alla frequentazione dei circoli culturali romani. Nel 1921 Mario Broglio presenta tre dei suoi lavori alla mostra Das junge Italien dove sono raccolte opere di Morandi, Carrà, de Chirico, Martini che sono all'origine del linguaggio europeo del "realismo magico".

Alla mostra Dieci artisti del Novecento, tenutasi a Roma nel 1927, Francalancia espone paesaggi aspri e medievali dell'Umbria e del Lazio, che appaiono già da ora il suo tema prediletto. Dopo il successo ottenuto con la prima personale nel 1928, l'anno successivo ottiene un primo importante riconoscimento internazionale alla mostra d'arte italiana a Budapest. Dopo anni di silenzio, dovuti a motivi di salute, nel 1935 riprende a dipingere; partecipa alle Sindacali del Lazio, alle Quadriennali romane (1931-1936), alle Biennali di Venezia (1932, 1936, 1950). Negli anni cinquanta affiancherà alla pittura una serie di scritti sulla propria ricerca artistica.

Comunicato segnalato da Studio Esseci

Ultimo aggiornamento: 30/01/2006 (12:43)

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